Questo nome non sarà nuovo per voi, Artemisia Gentileschi è stata la prima pittrice donna, di fama, ricordata prima del Novecento.
Figlia d’arte, nasce l’8 luglio del 1593, dalla madre che morì prematuramente, e dal padre Orazio Gentileschi, pittore pisano dallo stile manierista, che nel trasferimento a Roma, assorbì a pieno la corrente Caravaggesca, trasferita poi alla figlia.
La sua prima opera è datata 1610 “Susanna e i vecchioni”, che dimostra un talento indiscusso a soli 17 anni.
Nel pieno del suo apprendistato un evento però scosse completamente la sua vita: nella bottega di Agostino Tassi, alla quale il padre l’aveva affidata per continuare gli studi, fu brutalmente stuprata dal pittore. La ragazza dovette subire un processo molto chiacchierato e che distrusse completamente la sua reputazione: costretta ulteriormente a subire torture per confermare l’atto di violenza, riuscì a vincere questa battaglia, ma solo a metà. A causa delle amicizie di Tassi, egli non sconterà mai la sua pena, costringendo Artemisia stessa a lasciare la città con il marito Pierantonio Stiattesi, con il quale si trasferì a Firenze.
Fu la prima donna nella storia, nel 1616 ad essere ammessa alla prestigiosa Accademia del Disegno Fiorentino.
Tornò a viaggiare lungo la penisola scappando dai debiti del marito e da un probabile adulterio, la sua fama rimase impressa nelle corti, nonostante l’essere donna non aiutava nei numeri di commissioni, comunque più bassi rispetto a quelli di pittori maschili. A Napoli nel 1653, nel pieno del suo lavoro fu portata via dall’epidemia di Peste. Per secoli fu connesso il suo nome alle sue tristi vicende, fino a quando lo storico di arte Roberto Longhi nel 1916, scrisse un articolo che la riportò alla luce con le sue grandi opere.
Dal triste accaduto, le opere di Artemisia mostrarono sempre di più uno stile maturo, crudo, drammatico ed estremamente espressivo. Le protagoniste delle sue opere la legarono ad un precoce femminismo: eroine bibliche torturavano i propri carnefici con estrema eleganza. Forse cercando di immedesimarsi in quella cruda vendetta, essa tornava libera.
In alto la sua opera più bella e famosa.
“Giuditta che decapita Oloferne”, 1612